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Potrei stare a parlare per
ore del perché e del percome questo come-back dei The Ark ha insinuato
più di un dubbio nella mia testa, ma alla fine ci troveremmo sempre
al punto di partenza, visto che si tratta di un disco che al primo ascolto
sicuramente spiazza un po lascoltatore. Ovvio che non si sono
messi a suonare Death Metal, ma certo è che hanno puntato su suoni
che non rappresentano esattamente il massimo della commerciabilità.
Mi spiego meglio: le influenze dellhard rock anni 70 si sono
fatte molto più marcate (specialmente i Queen prima maniera), per
di più la maggior parte dei brani qui proposti sembrano essere stati
per davvero incisi nel 1972, epoca doro del glam rock inglese. Mi
riferisco non solamente alla struttura delle varie composizioni, bensì
anche ad alcune scelte di produzione che, per quanto possano essere volute,
finiscono col risultare indigeste, per lo meno al sottoscritto. Si tratta
di un semplice parere personale, che pregiudica in parte il mio giudizio
finale sul disco, e rafforza lidea che ci troviamo al cospetto di
un lavoro di buona fattura, che però avrebbe potuto suonare sicuramente
meglio. Giocare con sonorità retrò senza risultare noiosi
è alquanto difficile, ma se fatto per bene può essere cosa
altamente piacevole (vedi The Strokes, che vanno a recuperare suoni vecchi
di quasi 35 anni senza farti sbadigliare nemmeno mezza volta), ed è
questa è la più grande colpa che mi sento di scaricare sui
The Ark. Ho amato il loro debut album per il suo saper rileggere in chiave
attuale le influenze scintillanti del glam rock, per il suo gusto melodico
e per la malinconia di alcuni pezzi
Cosa è rimasto di quella
band ? Non più di un paio di canzoni. Disease è
la mia preferita, trattasi infatti del primo momento dellalbum dove
per una volta le atmosfere seventies vengono filtrate attraverso sonorità
più moderne, riprendendo il discorso iniziato in diversi episodi
del precedente album. Sulla stessa scia 2000 light years of darkness
e The most radical thing to do, che partendo sempre dal 1972,
finiscono col farsi abbracciare piacevolmente da squarci di rock più
recente. A virgin like you e Vendelay sono due pezzi
influenzati in maniera quasi scandalosa dal primo David Bowie(ascoltate
gli handclap della seconda!), nonostante ciò si lasciano ascoltare
in maniera abbastanza piacevole. Per il resto ci troviamo di fronte a tanto,
datato, glam hard rock tipicamente anni settanta, che magari può
anche piacere, ma alla fine non mi soddisfa appieno. Non è una vera
e propria stroncatura: fosse stato prodotto con suoni più aggiornati,
avrei replicato con molto piacere la più che positiva recensione
dellesordio di un anno fa. Li attendo al varco, sperando vivamente
un loro ritorno in carreggiata. Recensione realizzata da Tony Aramini. |
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